Rivoluzione

Ancora una volta il nostro Paese è pronto a dimenticare il digitale.
O meglio, è pronto a non cambiare.
Parole come trasformazione digitale e intelligenza artificiale sono diventate di moda, ripetute come un mantra; ma è un mantra che non porta a una riflessione, a un pensiero.
Al contrario. Facendo leva su facili emozioni, si evocano scenari di robot che ci ruberanno il lavoro, nuove generazioni isolate e incapaci di comunicare (!), algoritmi che ci governeranno.
Meglio rimanere nell’oggi, insoddisfacente, ma rassicurante.
Spesso ultimi nelle classifiche europee per uso della rete e competenze digitali, tendiamo a percepire la tecnologia e l’innovazione quasi come se fossero imposte: una novità “esterna” a cui dobbiamo adeguarci.
Dimentichiamo che le tecnologie digitali sono state pensate dall’uomo.
Siamo sempre lì a chiederci come le tecnologie digitali trasformeranno l’uomo e non ci interroghiamo su come la mente umana abbia avuto necessità di far evolvere la realtà.
È la rivoluzione mentale degli umani che ha prodotto la rivoluzione digitale. Il digitale è un modo di pensare. È la mente libera, veloce, associativa che ha avuto necessità di esprimersi con nuovi strumenti, di “navigare” tra temi, di avvicinare emozioni.
È la fatica e la ripetitività di alcuni lavori che ha lasciato spazio all’integrazione tecnologica.
Certo è una rivoluzione. Un radicale cambiamento delle categorie con cui guardiamo il mondo e interagiamo con esso.
Ciò che era abituale e “vero”, non lo è più.
Pensiamo alla rivoluzione che il digitale porta in alcune relazioni come: la relazione medico-paziente; la relazione insegnante-allievo; la relazione dirigente-collaboratore; la relazione PA-cittadino. Sono tutti rapporti fondati su un’asimmetria, di conoscenza e di “potere”. E con il digitale questa asimmetria viene messa in discussione. Probabilmente è per questo che le resistenze maggiori sono proprio in quelle categorie che devono rivedere e riconsiderare la loro dimensione di “potere” rispetto all’altro.
La trasformazione digitale implica il cambiamento delle culture su cui le organizzazioni basano il loro funzionamento. Non è facile, non è automatico, non si tratta semplicemente di imparare a utilizzare una nuova tecnologia, ma di costruire, con gli altri, nuove rappresentazioni del lavoro. “Sviluppo di competenze”. Sviluppo nel significato di togliere i viluppi, gli intrecci, i nodi, gli ostacoli (che sono per lo più ostacoli culturali).
E cambiano le parole, i concetti, le rappresentazioni.
Ad esempio, ha ancora senso utilizzare il termine “consumatore”, così tanto legato al concetto di bene economico? Consumare (ridurre al nulla un bene, un prodotto) era un concetto adatto a una società e a una produzione industriale e post-industriale, centrata sulle “cose”. La nostra epoca, come sottolinea Luciano Floridi nel suo ultimo lavoro “Il Verde e il Blu. Idee ingenue per migliorare la politica in una società matura dell’informazione.”, è fondata sulla qualità dell’esperienza, pone al centro le relazioni. Il punto minimo di osservazione non è più l’individuo, ma la relazione. Più che consumatori siamo diventati “produttori” di dati, nel nostro entrare, quotidiano, in rapporto con gli altri, con i contesti, con il mondo. 
E ancora, quanta miopia nell’attuale dibattito sulle pensioni. Nell’avere ancora come riferimento vite trascorse in uno stesso ufficio, in una stessa fabbrica, in uno stesso mestiere. Identità costruite in luoghi di lavoro, definite rispetto a un’appartenenza. A un contratto collettivo. Non è più così. E la difficoltà di non pensarsi più dietro scrivanie, insieme a colleghi, ha fatto nascere i coworking, surrogati di passato che guardano al futuro.
Come scrive Mauro Magatti in un recente articolo pubblicato sul Corriere della Sera “non sapendo più pensare il futuro, non riusciamo più a sprigionare quelle energie vitali che fanno lo sviluppo”.
Abbiamo necessità di costruire, con decisione e speranza, una visione (corale) di futuro.
Ma innanzitutto dobbiamo pensare, e sentire, di poterlo fare.