Nel manifesto pubblicato su Il Messaggero, Calenda chiede: “La tecnologia rimarrà uno strumento dell’uomo o farà dell’uomo un suo strumento?”
Stiamo guardando all’innovazione tecnologica oscillando tra preoccupazione e rassegnazione. Emozioni, entrambe, riconducibili a un senso di impotenza, di spavento, che dona alla macchina intenzioni, volontà… potere.
Oltre l’umano. A prescindere dall’uomo.
È come se l’algoritmo potesse prendere corpo, si reificasse, per trasformarsi in datore di lavoro, medico, giudice. Un’intelligenza artificiale che decide al di là di chi l’ha programmata.
Macchine senza guidatore. Sophia, la donna-robot, in grado di interagire con gli esseri umani e rispondere, puntuale, alle loro domande. E ancora armi autonome, droni che con precisione assoluta possono colpire il nemico designato. Oggetti che ci spaventano, che ci proiettano dentro un futuro da “fantascienza”.
Ma pensare l’innovazione e la sua dinamica evolutiva non vuol dire “prendere parte”, essere a favore o contro. Non vuol dire perdersi nella confusione emozionale, e paralizzarsi. Come quando proviamo un forte spavento e rimaniamo lì, immobili, senza riuscire neanche ad emettere un fiato. Non vuol dire evocare scenari di distruzione: dei rapporti sociali, del lavoro, dell’umanità.
La nostra possibilità “umana” di categorizzare la realtà ci consente di avviare un processo di riflessione, di comprensione e di prefigurazione. Possiamo guidare l’innovazione e decidere la direzione che prenderà. Siamo in grado di “regolare” gli artefatti tecnologici che l’intelligenza umana (IU) ha prodotto, e produrrà, e che saranno alimentati dai nostri dati e dai nostri modelli culturali.
Abbiamo la responsabilità di dare un senso allo sviluppo tecnologico e al futuro dell’umanità.
“Oggi la vera sfida è quella della governance del digitale. Sono le regole del gioco che fanno la differenza. Siamo arrivati sul pianeta del digitale. È un pianeta nuovo. Chissà quali meraviglie ci saranno e quali mostri. Ma l’atterraggio è avvenuto, questa novità è ormai parte della nostra storia, ora è la governance che deve dire cosa vogliamo fare in questo “pianeta”. (Luciano Floridi)
Il Gdpr è un inizio ed è un buon esempio di governance europea. (ne ho parlato qui)
Abbiamo la responsabilità di gestire la “capacità di sbagliare” della macchina. Come sottolinea Padre Paolo Benanti “l’etica nasce là dove c’è incertezza nelle decisioni da prendere”. Diamo alla macchina un senso di incertezza; garantiamone la trasparenza di funzionamento; istituiamo regole di governance.
E in tutto questo processo evolutivo, la narrazione è importante, perché contribuisce a costruire le percezioni e orienta i comportamenti. Allora, come narrare l’innovazione, proponendo opportunità e gestione dei rischi, senza cadere nella retorica positiva né nel disfattismo allarmista? Tenendo sì conto delle paure, ma fornendo categorie per pensarle e superarle?
L’Italia ne ha bisogno.
Il DESI (Digital economy and society index) appena aggiornato al 2018 dalla Commissione europea ci restituisce l’immagine di un paese incapace di innovare. Ancora al 25° posto fra i 28 Stati membri dell’UE (peggio di noi solo Bulgaria, Grecia e Romania), risultiamo carenti per competenze digitali e molto indietro nell’uso della rete internet (utenti internet: 69% delle popolazione italiana).
Il rapporto della Commssione Europea evidenzia: “L’Italia manca ancora di una strategia globale dedicata alle competenze digitali, lacuna che penalizza quei settori della popolazione, come gli anziani e le persone inattive, che non vengono fatti oggetto di altre iniziative in materia”.
Abbiamo la responsabilità di gestire le transizioni, non idealizzando il futuro, ma avvicinando le persone al coraggio dell’esplorazione.