Governare il digitale. Il progetto umano di Luciano Floridi

 

 

In dialogo con Luciano Floridi, ripercorriamo i temi del Convegno “Data to change” del 15 gennaio 2018 a Montecitorio.

Partiamo da una domanda classica: il digitale come ha cambiato la nostra vita?

L’ha cambiata con il “cut and paste”. Il digitale incolla cose che, in epoca moderna, abbiamo sempre pensato indipendenti l’una dall’altra, e scolla cose che abbiamo sempre pensato unite.

Prendiamo il concetto di presenza e localizzazione: il digitale li ha scollati. Fino all’altro ieri tu eri localizzato dove eri presente ed eri presente dove eri localizzato. Quindi il lavoro in tele-presenza non esisteva. Ecco perchè oggi le banche chiudono e le caffetterie aprono: la banca era stata pensata come un luogo di presenza e localizzazione, tu andavi per versare l’assegno, oggi non è più così. Perchè le caffetterie invece aprono? Perchè il cappuccino digitale non lo puoi prendere, o vai lì o non lo bevi. Ecco perchè ogni bookshop ormai ha il cappuccino incluso: così il libro non lo compri su amazon, vieni qui a prenderlo insieme al cappuccino.

E nello stesso tempo, il digitale ha incollato le cose. Ad esemio, oggi nessuno chiede più se è online o offline, perchè sei sempre onlife. Ogni telefonino ha circa trenta app che mandano ogni secondo la nostra geolocalizzazione. Siamo offline? Non credo proprio. Allora è un’illusione quella di dire “non sono collegato”. Si vive in realtà onlife. Il digitale ha incollato i due modi di essere.

Nella società dell’informazione quale progetto umano vogliamo disegnare? E come trasformare le idee in policies?

Oggi la vera sfida è quella della governance del digitale. Sono le regole del gioco che fanno la differenza. Siamo arrivati sul pianeta del digitale. È un pianeta nuovo. Chissà quali meraviglie ci saranno e quali mostri. Ma l’atterraggio è avvenuto, questa novità è ormai parte della nostra storia, ora è la governance che deve dire cosa vogliamo fare in questo “pianeta”. Questa è la vera sfida per dire che abbiamo veramente cambiato il mondo. Ogni società ha un progetto umano, ogni società immagina, implicitamente o esplicitamente, in maniera coerente o incoerente, cosa voglio essere da grande. La nostra società da grande cosa vuole essere? Cosa vuole fare? Qual è il nostro progetto al di là di farci un po’ gli affari nostri?

La politica oggi non sembra avere un suo progetto. Non sembra farsi carico di un progetto umano. Lo fa per mille ragioni (approfondirò il tema in un opuscolo di prossima pubblicazione). Abbiamo ereditato parte di un progetto che già era in corso: il progetto moderno. Ora dobbiamo inventare una componente nuova, che sarà il nostro progetto, il progetto del 21esimo secolo.

Il progetto attuale, se guardate ai pochi contesti fortunati dove le democrazie funzionano, è in realtà un metaprogetto. Questo vuol dire che lo Stato, il governo, la politica, non hanno una loro progettualità se non quella di abilitare/facilitare la progettualità individuale.

Far sì che la società sia decente in modo che la progettualità di ogni individuo possa fiorire, nei limiti della legalità, ecc. Questa è una cosa buona, che dovremo mantenere in futuro. Ma non c’è un progetto sociale. Il metaprogetto è quello di rendere i progetti umani individuali possibili. Questo è tipico del ‘900, della società liberale, quella un po’ tollerante, e va benissimo. Ma è una gamba sola, è una gamba individuale. E la gamba sociale? Come facciamo a correre con tutte e due le gambe?

Non che sia sbagliato, ma il metaprogetto è un parte sola. È necessario ma non è sufficiente.

La persona, la sua felicità (quella che i greci chiamavano eudaimonia), il suo benessere, in questa infosfera, sono un continuo, incrementale, raggiungimento delle proprie speranze. La felicità di ciascuno di noi, nel metaprogetto, è fatta in modo tale che io abbia una piccola speranza e ogni giorno acquisisca sempre di più la realizzazione di questa speranza.

Se me la gestisco abbastanza bene sarò sempre felice perchè ogni giorno avrò una piccola speranza in più che avrò soddisfatto.

Il guaio della speranza è che è fatta di due cose: una è il desiderio (voglio vincere la lotteria), l’altra è la credenza, ossia la fiducia di avere almeno una chance (se non ho comprato il biglietto della lotteria, non posso certo sperare di vincerla.) Credenza e desiderio.

Ora prendete questo pacchetto e immergetelo nel contesto tecnologico. Chi è che oggi soddisfa i nostri desideri e ci dà questa costante piccola aggiunta nel credere che domani sarà un po’ meglio del giorno passato? Che sostanzialmente la speranza possa essere un po’ gestita in maniera intelligente? È la tecnologia.

Oggi niente come la tecnologia ci dà l’illusione della speranza, che viene via via sempre più soddisfatta in maniera graduale.

Il grande rischio è che la tecnologia oggi faccia leva sul desiderio e sulla credenza, manipolandole e generando speranza.

L’opportunità è quella dell’empowerment dell’individuo e della comunità, il controllo sui propri dati, sulla propria esistenza, un senso di maggiore realizzazione di se stessi, maggiore significanza nei confronti della propria esistenza, e tutto ciò sia a livello personale sia a livello di gruppo.

Tutto questo nel metaprogetto rischia di sforare in una sorta di tecno-utopia.

Non è strano che oggi non abbiamo forme forti di utopia. L’utopia può esser vista come illusione o come visione. L’utopia come visione è importante, vuol dire che la società ha un suo progetto che cerca di realizzare: quanto sarebbe bello se andassimo in quella direzione.

Ora nel metaprogetto (soddisfazione delle progettualità individuali) il rischio è che si finisca in questa tecno-utopia. Oggi gli unici in grado di dare un po’ di utopia sono quelli che vendono i pacchetti per le smart cities, fanno delle brochure bellissime.

Tutto questo lo abbiamo ereditato dalla modernità, da un ‘900 che è un po’ stanco ormai.

Ma questo nuovo secolo, cosa potrà generare?

Potrà generare una socialità decisamente migliore.

Abbiamo l’opportunità di un progetto sociale in cui ricordarsi che la felicità non è soltanto dell’individuo. C’è la felicità del pianeta. C’è la felicità di tutta una popolazione. C’è la felicità di una specifica società. Questo vuol dire pensare in maniera seria a quello che vuol dire preparare un progetto umano per la società dell’informazione.

Il “noi” è l’altra gamba dell’”io” che abbiamo visto prima. Il “noi” lo dobbiamo costruire.

Se hai una macchina che non funziona e gli dai una spinta non serve a niente. Se non ci mettiamo tutti d’accordo e spingiamo tutti insieme, senza coordinamento, l’automobile non riparte. L’emergentismo, ovvero il fatto che da tanti elementi emerga una proprietà comune, non è del tutto vero. Non basta che tutti abbiano l’opportunità di avere un’assicurazione sulla vita o un’assicurazione sanitaria affinchè si viva in una società sana.

Come avere progetti più ambiziosi?

Questo è un problema molto presente in Italia. Mille progetti, tutti bellissimi, tutti piccoli. Non c’è modo di scalare a un livello macroscopico.

“We the people”: spingendo tutti insieme possiamo arrivare a progetti molto più ambiziosi, anche dal punto di vista etico.

Altrimenti, il costo dell’opportunità non colta sarà altissimo.

C’è la possibilità di fare un progetto umano per la società dell’informazione.

In passato le tecnologie, quelle meccaniche, industriali, petrolifere, hanno incollato il capitalismo al consumismo e andava bene così, non se ne poteva fare a meno. Era l’era industriale, la produzione di cose era legata alla creazione di ricchezze e benessere, creazione di cose da consumare, l’una andava con l’altra. Ora il digitale queste cose le ha scollate. Dovremmo prenderne nota e trarne vantaggio.

Seconda linea. Il capitalismo resta, non c’è altro meccanismo che noi conosciamo per la creazione di benessere e ricchezza. Però il benessere e la ricchezza non sono distribuiti bene, in maniera ecologicamente sostenibile. Allora inegualità e insostenibilità sono le due pecche grosse del capitalismo come l’abbiamo ereditato dall’era industriale, ma quello era legato alla creazione di cose. Oggi la nostra economia non è più legata alla creazione di cose, ma alla creazione di esperienze, di servizi e così via.

Allora il progetto umano che potremmo avere nel “we the people”, potrebbe essere un capitalismo che non consuma il mondo, ma fa un’operazione di cura del mondo. Avvantaggiare sia economicamente sia socialmente la società che genera questa cura. Questo si può fare, lo possiamo fare in Italia già da ora. Sarebbe bene che ne cominciassimo a parlare.

Il problema è che queste 4 felicità: dell’individuo, del pianeta, della società, della popolazione, purtroppo restano sempre all’inizio di ogni introduzione. Dobbiamo andare oltre e cercare di realizzarle coerentemente, in un nuovo progetto umano all’altezza del ventunesimo secolo.

 

Articolo pubblicato il 5 febbraio 2018 nell’inserto FOR del quotidiano ©IlFoglio

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Luciano Floridi è professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab.

Il Convegno “Data to change” è stato ideato e organizzato dall’Associazione InnovaFiducia in collaborazone con il Dipartimento Politiche Europee della Presidenza del Consiglio.