Il disagio è aumentato. Ansia, crisi di panico, autolesionismo e depressione accompagnano sempre più il nostro vivere, la nostra quotidianità. E questo è vero soprattutto tra i giovani. Il trauma della pandemia, con la paura, l’isolamento, il venir meno dei contesti, delle routine, delle relazioni e il contatto con la morte, ci ha lasciati muti e soli. Ora l’invasione dell’Ucraina e l’agghiacciante terrore di un conflitto globale nucleare, rendono la nostra esperienza di pace precaria, fragile: “un nuovo shock che proietta lunghe ombre sul futuro che ci attende”, scrive Mauro Magatti.
Come intervenire? Come prendersi cura?
Un primo approccio di lettura e azione sul fenomeno, si rifà a un modello medico, centrato sull’individuo: sintomo, diagnosi, terapia (in questo caso, psicoterapia o psicofarmaco). Governo, Regioni, Società scientifiche si sono mobilitate e impegnate per garantire il diritto alla salute mentale attraverso bonus, rafforzamento dei servizi di cura territoriali, ipotesi di riforma dei dipartimenti di salute mentale. Farsi carico di chi soffre, di chi si è ammalato, di un disagio individuale che va contenuto. Interessante, a questo riguardo, la proposta del Manifesto della Salute Mentale che vede nella centralità dell’equipe territoriale e nel lavoro di integrazione socio-culturale, all’interno della comunità in cui la persona vive, strumenti fondamentali di umanizzazione della cura psichica: “perché il dolore acuto, destrutturante possa essere contenuto senza eccessi dì sedazione, perché si eviti la sua sorda cronicizzazione, perché le emozioni e i pensieri dì chi soffre abbiano ascolto e rappresentazione, perché il soggetto lacerato, e pur tuttavia vivo, possa ritrovare il suo posto dì cittadino nella vita lavorativa, culturale e politica, e riappropriarsi della sua creatività”. Vero. Giusto. Fondamentale.
Ma cosa fare quando è un’intera società che ha smarrito il senso? Quando si tratta di riuscire a rendere generativo ciò che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, collettivamente? E’ sufficiente cercare di ri-sanare il singolo individuo “malato”? Le emozioni non sono un fatto individuale. Le emozioni sono sociali, perché le condividiamo con i gruppi e le organizzazioni a cui apparteniamo, perché le costruiamo nelle culture in cui viviamo. La salute non è solo uno “stato” individuale, ma un “processo” che muove e si sviluppa lungo il percorso della vita all’interno di specifici contesti sociali.
Il disagio che stiamo vivendo si può sconfiggere solo con un nuovo disegno di società per il domani, facendolo diventare fecondo di cambiamento; alimento di nuove forme di comunità. (…sperando di non essere solo Avatar a spasso nel Metaverso!).
E allora, occorre una vera azione politica di cura. Occorrono nuovi collettori sociali. Occorre “prendersi cura del capitale semantico dell’umanità” (Floridi, 2022). Occorre superare la frammentazione: tra i saperi, tra le discipline, tra le società scientifiche, tra le persone, tra le parti interne di ognuno. Non possiamo immaginare di mandare tutti in psicoterapia. Non possiamo medicalizzare la vita. Il disagio è tra noi.
© Foto di Roberto Cotroneo