Philip Larrey, docente di Filosofia della Conoscenza all’Università Lateranense di Roma e autore del libro “Futuro Ignoto. Conversazioni sulla nuova era digitale.”, mi pone alcune interessanti questioni sul futuro sviluppo dei valori umani nell’epoca digitale. Temi che vorrei approfondire con voi in un dialogo e in una riflessione comune.
Il tema, “Valori nell’epoca digitale”, sarà approfondito in occasione di un seminario che Philip Larrey sta promuovendo per il prossimo 4 novembre presso l’Università Pontificia e che vedrà coinvolti molti degli attori della trasformazione digitale.
L’innovazione e la centralità dell’uomo
di Philip Larrey, Pontificia Università Lateranense
L’importanza del progresso tecnologico, nella nuova “era digitale”, ci invita a riflettere sulla centralità che l’uomo e i valori umani assumono in questo momento di profondo cambiamento. Saremo capaci di mettere l’uomo e i valori umani al centro dello sviluppo? Quali valori e quale futuro stiamo contribuendo a costruire?
Non è un’impresa facile.
Maurice Lévy, amministratore delegato del Gruppo Publicis a Parigi, mi ha raccontato la sua esperienza a Davos dello scorso gennaio. In occasione del World Economic Forum si è confrontato con alcuni economisti della scuola di Chicago suggerendo di sostituire l’interesse degli “Stockholders” (azionisti) con l’interesse degli “Stakeholders” (le parti interessate) per includere anche: gli impiegati delle aziende, i clienti, i loro familiari…fino alle città (come realtà sociale e civica). Le opportunità offerte dagli strumenti digitali renderanno evidente, una volta di più, questa necessità: mettere al centro di ogni attività non il guadagno, ma l’uomo.
Il potere della tecnologia digitale è, ormai, fuori discussione, ma oltre le risorse vanno valutati anche i rischi.
Forse il tema più pressante, in termini di priorità, concerne il mondo del lavoro. È noto lo studio di due specialisti dell’economia e del lavoro, Carl Frey e Michael Osborne, dell’Università di Oxford, che nel settembre 2013 stimano come il 47% dei posti di lavori negli Stati Uniti sarà sostituito dalle macchine e dall’intelligenza artificiale. Ciò che la rivoluzione industriale ha fatto con l’agricoltura, la rivoluzione digitale farà con quasi tutti i settori dell’economia. Gli stessi autori nel 2015 pubblicano un nuovo paper in cui evidenziano come l’innovazione abbia prodotto vantaggi distribuiti in modo non equo.
Nel prossimo futuro, la “realtà virtuale quasi perfetta” e impianti cerebrali che offriranno realtà alternative pre-programmate, diventeranno alla portata di tutti e le sensazioni riprodotte rassomiglieranno a quelle di una realtà autentica. Con buona pace di Mark Zucherberg e il nuovo VR Gear della Samsung presentato alla fiera di Barcellona alcuni mesi fa, ancora non ci siamo, è ancora difficile convincere la gente a mettere occhiali che ti proiettano in un mondo virtuale che sembra vero; ma ci saremo fra poco. A quel punto, la realtà virtuale diventerà una specie di droga? Un escapismo, una dipendenza, per tante persone che preferiranno passare il loto tempo lì dentro anziché nella vita vera?
È difficile vedere in questa tendenza la centralità dell’uomo nell’innovazione.
Michael Madary e Thomas K. Metzinger, Universität Mainz, Germany, in una recente pubblicazione evidenziano i rischi della Realtà Virtuale, per gli individui e per la società, intorno a quattro temi principali: immersione di lungo termine, trascurare l’ambiente sociale e fisico, contenuti rischiosi e privacy. Secondo i due studiosi, la tecnologia VR finirà per cambiare non solo la nostra immagine generale dell’umanità, ma anche la nostra comprensione di nozioni profondamente radicate, come “l’esperienza cosciente”, “individualità”, “autenticità”, o “realtà”. Inoltre, trasformerà la struttura della nostra vita determinando nuove forme di quotidiane interazioni sociali e cambiando il rapporto che abbiamo con la nostra mente.
Le agenzie di pubblicità comprano elenchi che contengono profili anonimi, per poter produrre pubblicità mirata, “targeted” verso degli individui o gruppi, a seconda dei prodotti da vendere. Sir Martin Sorrell mi disse a novembre scorso a Londra che il futuro della pubblicità sarebbe stato appunto poter gestire questa mole di informazioni e utilizzarla intelligentemente a livello planetario. Se per la WPP, i profili sono anonimi, per chi ha raccolto i dati, non lo sono. Qualcuno sa che sei tu, con le tue preferenze, scelte, conoscenze.
Ci sono alcuni tecnici molto bravi che riescono ad entrare nel tuo smartphone o PC. Si chiamano hackers. Il vice presidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, ha dovuto togliere la funzione WiFi del pacemaker per paura degli hackers. La Banca nazionale del Bangladesh è stata violata il 7 marzo 2016, e alcuni fondi rubati dal conto dell’U.S. Federal Reserve Bank of New York. Hanno tracciato parte dei fondi presso alcune banche nelle Filippine (e il caso è ancora sotto indagine). I Panama Papers sono un altro esempio del poter dell’informazione, nello specifico non si tratta di “leaks” (fughe), ma di “hacks”. Alcuni pensano che probabilmente i responsabili siano proprio dirigenti della NSA, a a causa della mancanza di nomi americani nell’elenco.
Questi esempi ci mostrano l’importanza che la fiducia giocherà nel futuro digitale. Tale fiducia potrebbe derivare della sicurezza cibernetica: algoritmi che non siano “crackabili” o comunicazioni che siano criptate (come recentemente i creatori di WhatsApp hanno introdotto nel loro prodotto). Allo stesso tempo, mi piacerebbe pensare che sarà lo stesso uomo, riprendendo coscienza della sua dignità e desiderio del Trascendente, a occupare il posto centrale nell’era digitale.
E ancora, il livello di dipendenza dallo strumento.
Prendiamo un’affermazione dell’allora candidato alla nomination repubblicana per la presidenza degli Stati Uniti, Senatore Marco Rubio. Nel dibattito del 3 marzo 2016, il senatore cerca di screditare l’abitudine di Donald Trump di assumere lavoratori illegali ispanici per costruire i suoi edifici, centri commerciali e alberghi di lusso (soprattutto nello stato della Florida). Dopo aver fornito alcune cifre sui numeri e tempi degli impiegati, Rubio, capendo che potrebbe essere difficile credere a statistiche così clamorose, dice: “Se non mi credete, potere andare su Google per verificare”. Senza essere completamente consapevole, il senatore ammette che la credibilità di Google sia maggiore della propria. Pochi giorni dopo, Marco Rubio perde le primarie e si ritira dalla corsa per la presidenza. Se un esponente politico ha meno credibilità di un motore di ricerca, allora significa che le priorità stanno cambiando.
Google è diventato uno strumento per la verifica delle nostre conoscenze.
La National Security Agency (NSA) afferma che quando ha un sospetto su cui indagare, la prima cosa che fa è “Googleare” la persona in questione. Le forze dell’ordine (non soltanto quelle americane) utilizzano la stessa procedura. Alcuni giorni giorno dopo la strage terroristica a Parigi, Eric Schmidt si riunisce con alcuni capi di stato a Berlino, per condividere informazioni sui gruppi terroristici che da tempo Google sta tracciando. Il governo americano consente a tanti siti web jihadisti di rimanere in linea (anziché bloccarli) per poter tracciare la loro attività. Interessante che il 2 marzo di quest’anno, il direttore del Pentagono (Ministro della Difesa), Ash Carter, ha creato il Defense Innovation Advisory Board (Consiglio consultivo della difesa per l’innovazione), nominando come consulente principale lo stesso Schmidt. Quanti di noi, ogni tanto, cercano il proprio nome su Google per verificare l’informazione che emerge? Perché sappiamo che chiunque volesse avere informazione su di noi comincerà la sua ricerca da lì.
Dobbiamo chiederci quali valori stiamo contribuendo a costruire.
Il tema dei “Valori nell’epoca digitale” sarà approfondito in occasione di un seminario che si terrà il prossimo 4 novembre presso l’Università Pontificia e che vedrà coinvolti molti degli attori della trasformazione digitale.